Il Capitalismo cerca di risalire la china: Trump chiude al villaggio globale. La nostra risposta politica.

  • Di Giovanni De Luca.

 

Sta avvenendo qualcosa di nuovo nell’economia mondiale. Il Capitalismo, come una Anaconda sazia e incapace di strisciare, cerca di rifugiarsi nella sua tana per non essere catturata. Svolta sintetizzata da Trump  quando ha detto senza mezzi termini: “da oggi in poi una nuova visione governerà il nostro paese, da oggi in poi sarà prima l’America!’”,  e poi  ha continuato: “Seguiremo due semplici regole: comprare americano, assumere americano”.

L’immagine  del goffo americanaccio arrogante, presuntuoso non ha fatto comprendere al mondo che il serpente cambia pelle per difendersi dalla crisi internazionale.

Si sta passando ad una fase di “deglobalizzazione” dell’economia capitalista che non potrebbe andare contro se stessa, essendo il Presidente in carica, sintesi di interessi in tal senso. La verità è che, dal 1945 ad oggi, fra guerre planetarie, vecchie alleanze in crisi, sconfitte su vari fronti, la nascita di una economia asiatica, gli Stati Uniti il 50% del proprio Pil mondiale lo ha visto dimezzato.

Le battute d’arresto in Afghanistan, Iraq e in Siria, la nascita di cellule islamiste fuori controllo, l’avanzata di un fronte anti-americano e avverso alla Nato, impongono un cambio di strategie per non stramazzare definitivamente al suolo.

Perché produrre in Cina, in India, in Pakistan, con i costi di trasporto così alti a causa del gap infrastrutturale?  Nasce il capitalismo a filiera corta trumpiano. A filiera cortissima.

Con  “Il discorso alla Carrier” pronunciato dal presidente-eletto degli Stati Uniti a Indianapolis, negli stabilimenti dell’azienda che inventato i moderni condizionatori d’aria di fronte ai lavoratori e ai vertici della United Technology, conglomerato da 60 miliardi di dollari ha annunciato solennemente di aver convinto i top manager del gruppo, al termine di un lungo negoziato telefonico, a non dirottare 1100 impieghi (in realtà poco meno di 700 su oltre 2100) dagli impianti in Indiana al Messico, paese che offre costi del lavoro enormemente vantaggiosi.

Tra il 1948 e il 2016 il tasso medio di disoccupazione è stato del 5,8%, Il protezionismo di Trump, allentando la regolamentazione dei settori finanziario ed energetico, insieme a qualche sorta di programma di opere pubbliche, può portare alla creazione di qualche milione di posti di lavoro.

Alcuni intoppi sul cammino. Il “Muslim ban”.

I decreti islamofobici sui rifugiati e gli immigrati, che hanno riguarfato i cittadini da sette paesi a maggioranza musulmana ­– Siria, Iraq, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen – sono stati bloccati una volta arrivati negli Stati Uniti, ma in realtà non per motivi di terrorismo, considerato che degli attentatori non c’è stato nessuno proveniente da questi paesi. Era solo il tentativo di avvio della politica neonazionalista, fermata inaspettatamente dalla ministra incaricata della giustizia di New York che ha disposto un’ingiunzione temporanea per impedire il rimpatrio di coloro che erano già sul suolo statunitense.

Naturalmente lo spettro della recessione è dietro l’angolo. Ma questo per i capitalisti non è un problema, non sono “creatori di posti di lavoro” ma creatori di profitti. Nella loro lotta incessante per soddisfare gli appetiti dei loro azionisti rovistano in tutto il pianeta alla ricerca delle materie prime e della forza lavoro più a basso costo. Di fronte a degli ostacoli burocratici, troveranno sempre una scappatoia per aggirarli ed espellere gli stranieri, per assumere americano, alzare il muro al confine con il Messico, servirà anche per dare nuovi posti di lavoro e per strozzare l’economia dei messicani per trarne poi più dei vantaggi, lascia presagire un prossimo definitivo tracollo  del sistema.

Quello che Trump mostra è il vero volto del liberalcapitalismo: il volto dell’odio verso le minoranze, verso gli oppressi. Nel capitalismo moderno, ciò significa verso la maggioranza della società.

Poi Trump vuole ridisegnare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, mettendo in discussione tutti i trattati commerciali esistenti. Stracciato il Tpp, considera morto il Ttip e vuole rinegoziare anche  il Nafta.

“L’euro è un marco travestito con cui la Germania sfrutta Usa e Ue”, ha affermato un consigliere di Trump.

L’attacco alla Germania (e alla Cina) è già iniziato. L’Italia è stretta nella morsa ma le  altre nazioni non staranno a guardare. La guerra commerciale che ne conseguirà non avrà altro effetto che quello di una diminuzione del commercio mondiale già in calo e come conseguenza una contrazione dell’economia a livello mondiale.

Qui si inserisce la nostra Terza Via, che propugna una  «etica della responsabilità» e dell’«economia sostenibile» – «equa e solidale», a «filiera corta», a «Km zero», a «spreco zero», a «impatto ambientale zero».

Dobbiamo essere capaci di sfruttare i finanziamenti europei e creare un nuovo rapporto fra “glocalismo”  e mercato. È da qui che ripartiamo per cambiare: cambiando noi stessi, il nostro stile di vita, i nostri consumi.

Concentriamoci piuttosto un momento sul «nostro modo di produrre», e chiediamoci: un modo di produzione non presuppone peculiari rapporti sociali?

Per brevità do la mia risposta senza troppi giri di parole: non c’è dubbio. Bisogna ripartire da un mercato equo e solidale “glocale”. La nostra sfida frontale al liberalcapitalismo!

 

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