Un mondo nuovo, fatto di umanità e di difesa delle Identità. Le nostre e quelle altrui.

Editoriale di Giovanni De Luca

Mi trovavo in casa di amici in riva alla costa jonico-salentina, la finestra della stanza si affacciava sul mare. In lontananza si sentivano voci di bambini che rincorevano un pallone. Il mare era calmo, ogni tanto qualche onda accarezzava la riva. La penna scivolava sul foglio ed i pensieri si mescolavano al fumo della pipa che saliva dalle narici. Un “fermo immagine” sullo schermo della mia mente ed i titoli del TG del 10 agosto 2013 con la perdita di vite umane in mare. Mi capita spesso quando osservo l’orizzonte ed il tramonto sull’acqua.

Il vecchio continente non è nuovo a tratte di “esseri umani” legati da una catena e le navi affondano da secoli nei nostri mari trascinando a fondo storie e vite, sogni e speranze. Storie atroci quanto disumane. Libri di storia, racconti di superstiti, narrano di persone legate come bestie con lunghe catene uno all’altro, andati a fondo senza poter far nulla per un attacco venuto dagli uomini o dalla natura. Navi che avrebbe dovuto condurli dalla terra natia l’Africa, verso il sud America o altre destinazioni per renderli ancora più schiavi.  Affondavano allora come oggi, il mare soffocava, soffoca, ogni grido. Alcuni di loro, sottoposti a sforzi disumani remavano per ore, sotto il sole rovente nella speranza di avere libere le caviglie.

Qualcosa di più drammatico, inaccettabile, accade in un contesto dove si presume che l’umanità abbia raggiunto più avanzati traguardi di benessere sociale. Non ci sono più catene che stringono caviglie, ma una più subdola condizione di inferiorità, rende ancora gli uomini non liberi e le tratte continuano oltre che nel silenzio,  spesso nella compiacenza di una “certa” Europa, che si definisce “umana”. Ed “umanitaria”. E’ notizia – l’ennesima – non tanto lontana nel tempo, che un gruppo di 90 somali tra cui 14 donne su un gommone alla deriva nel Canale di Sicilia siano stati soccorsi da una nave mercantile. I profughi una volta giunti a Lampedusa dopo essere stati tratti in salvo su una motovedetta della Guardia di Finanza, hanno raccontato che tre donne sarebbero morte durante la traversata e i loro corpi sarebbero stati abbandonati in mare. Ne ha parlato per prima una donna, ed inizialmente le parole della sopravvissuta sono rimaste isolate. Forse per timore, i compagni di viaggio non le hanno confermate. Solo in un secondo momento ai soccorritori, gli altri superstiti  hanno raccontato dei compagni morti e gettati in acqua. Gli sbarchi sono continuati. Solo dal 2016 al 2018  sono 4.220 i migranti morti nel Mediterraneo. Si tratta della cifra di morti più alta registrata da sempre, ben oltre il totale del 2015, quando le vittime in mare furono in tutto 3.777. “Numeri” marginali relativi, al cospetto dei flussi migratori generali, o dell’immigrazione indotta. Storie di uomini e donne che diventano “numeri”. Scrivevo negli scorsi giorni della de-umanizzazione della società senza essere ben compreso. Come al solito, spesso, tacciato di “buonismo”. Ciò che più mi preoccupa è che questi attacchi provengano, in maniera indifferenziata, da ampi stati della società.

C’è un terzo e quarto mondo che spinge verso l’occidente dell’apparente benessere. Del presunto soddisfacimento di tutti i bisogni. In questo processo spesso studiato a tavolino, ci sono le organizzazioni degli speculatori internazionali, anche legalizzate, pronte a sostituire i vecchi “schiavisti”. Questa Europa ammalata resta a guardare. Una Europa ammalata nello “spirito”.
Penso ai miei amici africani. Penso a Simbala, Mamadou, Sukenia. Penso alla loro ricchezza: quell’immenso sorriso, la loro cultura del donare, la voglia di riscatto e libertà. Sono da anni qui  in Italia, lavorano e si sono integrati. Mi raccontano che negli ultimi anni sono però cambiate le nazionalità dei flussi migranti, sono diminuiti gli arrivi dal Corno d’Africa e dal Medio Oriente, mentre è aumentato il numero di persone originarie dell’Africa occidentale. Il loro piano migratorio spesso è cambiato durante il tragitto, prendendo forma lungo le varie tappe del viaggio. Non sono pochi  coloro che volevano andare in Libia a lavorare ma  sono stati costretti alla traversata del Mediterraneo per fuggire ad abusi e violenze subite in quel paese. Molti sono inoltre coloro che si augurano di poter restare in Italia e che non hanno intenzione di proseguire il loro viaggio in altri paesi europei: un’inversione di tendenza rispetto a solo qualche anno fa. Ne parlano con la paura negli occhi di chi sa di non avere certezze e sempre meno diritti diritti, in una condizione di immigrazione indotta che non trova sbocchi lavorativi e diritti sociali e fa fare passi indietro anche a coloro i quali sono qui da anni ed avevano raggiunto un buon grado di integrazione.

Mi dicono che la società sta cambiando, si sta incattivendo e che non c’è più tranquillità per nessuno. Che questo è un male. “Non è buono”, dicono.

L’immigrazione è un dramma, lo è per chi parte e per chi accoglie, lo è per i problemi gravissimi che il fenomeno provoca. Dramma di “sradicamento”, di perdita della propria “identità”, di rinuncia alle proprie “radici”. Dramma come condizioni di vita, quando non di morte, per chi è condannato nelle prigioni dei centri di accoglienza, per chi è ai margini sociali di una fallita integrazione, per chi è nelle prigioni di Stato per comportamenti ai quali prima o poi si è obbligati, manovalanza della criminalità organizzata. Dramma, per chi cullando il sogno di una vita migliore, affonda in mare aperto o a poche miglia dalla costa. Dramma che si fronteggia adeguatamente solo nei paesi di origine, nei quali scaturisce la necessità di non essere “schiavitù indotta” per destino.

Dramma!

In un mondo che ha rotto gli argini e non riconosce più l’importanza dei confini. Schiacciati, come si è, da una logica livellatrice propria della globalizzazione.

Di migrazione e di integrazione: accoglienza, libertà e “nuovo mondo”.

Di storie di schiavismo, di immigrazione e migrazione, di scontri etnici – culturali o religiosi, di rotte di uomini e donne e dei loro drammi, così come di storie meravigliose, ne sono pieni i libri scrivevamo in apertura.

Ma non mancano gli esempi dai quali ripartire. Racconto la storia di un uomo. Un nativo americano membro della tribù Patuxet che in un primo momento, da schiavo dell’esploratore inglese Thomas Hunt, fu condotto in Spagna verso i primi anni del milleseicento e dal quale fuggì dirigendosi in Inghilterra. Lì Squanto lavorò ed imparò l’inglese, riuscì a mettere da parte dei risparmi, riscattare la sua esistenza e riuscì in poco tempo a tornare nella sua tribù d’origine, la trovò decimata e colpita da una terribile pestilenza (probabilmente vaiolo).

Nel frattempo un gruppo di privati cittadini inglesi di religione cristiana puritana, avevano deciso di abbandonare l’Inghilterra e di dare avvio ad un iniziale, spontaneo, flusso immigratorio. La storia li ricorderà come i così detti “Padri Pellegrini“, che si insediarono sulla costa deserta del Massachusetts, dopo sporadici tentativi in Virginia. L’approccio ad un mondo nuovo e desertificato fu per questi umani, un vero e proprio dramma poiché i tradizionali metodi di agricoltura non attecchirono e la pesca era una pratica inusuale. I più deboli, gli anziani ed i bambini, le donne, venivano progressivamente e velocemente “abbattuti” da stenti e malattie, fra le quali lo “scorbuto”, l’insediamento si avviava all’estinzione fino a quando questi vennero in contatto con Squanto. Grazie alla conoscenza della lingua Inglese fecero amicizia e Squanto aiutò i coloni inglesi sorprendendoli catturando pesci, soprattutto le anguille. insegnò loro a piantare semi da li a poco fertili, colture proprie di quel clima rigido. Nasce la  figura che oggi definiremmo del “mediatore culturale”. L’anno successivo i “pellegrini” sopravvissuti festeggiarono il raccolto con Squanto e le tribù a lui vicine. Le celebrazioni durarono tre giorni, durante i quali si banchettò con anatre, pesci e tacchini procurati dai coloni e cinque cervi portati dai nativi, una delle festività principali americane, di quell’ America meravigliosa e semplice, umile, del “Thanksgiving Day” (il giorno del ringraziamento).

Un esempio di ospitalità e crescita reciproca  unico nel suo genere. Destinato a tracciare la storia.

Testimonianze narrano della dedizione quotidiana di Squanto, una missione verso  “l’altro” che è durata incessantemente fino al giorno della sua morte. Squanto fu sepolto in una tomba anonima nel Chathamport e la sua eredità viveva oltre la carne, il suo spirito aleggiava perché la convivenza fra Pellegrini e il Wampanoag è rimasta pacifica per ulteriori cinquant’anni.  E’ da questo uomo, del quale il ricordo e la testimonianza è andato oltre i limiti dell’informazione e dei mezzi a disposizione in quel tempo, che il vecchio continente dovrebbe ripartire per curare il suo male. Un messaggio che congiunge due mondi e si proietta verso nuove necessità: migrazione ed accoglienza.

Pensare a tutto questo è un segno positivo dal quale trarre insegnamento. I cambiamenti epocali non vanno combattuti, vanno studiati, interpretati, compresi, governati.

 

 

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