ETICA. Il sistema dell’usurocrazia mondiale, col pretesto della tutela dei surrettizi “nuovi diritti” si scaglia oggi contro la vita umana

di Vincenzo Scarpello

Chi può valutare se una vita sia degna di essere vissuta?

La domanda, che sembra sorgere dalle leggende spartane riguardanti il Monte Taigeto, dove il popolo guerriero per eccellenza abbandonava i bambini nati deformi o deboli, appare oggi avere una tragica applicazione in quei paesi che una mentalità provinciale e decadente ancora si ostina a definire “civili”, ossia la Gran Bretagna, il Belgio, l’Olanda e la Francia, paesi percorsi dalle rivoluzioni protestanti e liberali e che oggi sono avanguardie dell’ultima rivoluzione, quella antropologica, neopositivista e radicale, che vuole colpire l’uomo nella sua medesima essenza.

Non si può tra l’altro rilevare, con una notevole dose di sarcastico sprezzo, che gli stessi che fino all’altro ieri avevano ricoperto di esecrazione la legislazione eugenetica del Reich hitleriano, dove l’eutanasia di Stato, che traeva origine dal darwinismo sociale, tutto occidentale, tutto positivista, oggi invece ammorbano il dibattito giuridico e filosofico sulla legislazione del cosiddetto “fine vita” o di eutanasia abortiva.

Per costoro la vita di un uomo, se vulnerata dalla malattia e dalla sofferenza, può essere interrotta in qualsiasi fase, dal grembo delle madri fino all’anzianità più indifesa. Ancor più rilevante l’attualità del dibattito scientifico se si pensa che nelle Università europee, presso le cattedre di diritto penale, si svolgono conferenze e convegni ed esiste un pullulare di studi giuridici sul diritto alla morte, che viene annoverato dalla linguistica gnostica della letteratura penalistica contemporanea, come un “nuovo diritto”.

Come sempre accade in un sistema giurisprudenziale, come quello italiano, dove i limiti tra i poteri dello Stato circa l’interpretazione e l’applicazione delle norme e la loro ratio ispiratrice appaiono sempre più sfumati, con interventi sempre più invadenti di sentenze che interpretando ideologizzano, il principio che la vita umana possa essere un diritto del quale può disporre l’individuo, ricercando la risposta al quesito fondante “a chi appartiene la vita di un uomo”, è stato progressivamente introdotto nell’ordinamento positivo, lentamente scardinando l’assioma di diritto naturale in base al quale la vita sia un bene di cui nessuno può disporre.

Se un tempo il fondamento del bene della vita fosse l’appartenenza a Dio, ed a seguito delle rivoluzioni liberali gli si sia sostituito lo Stato, furono proprio le tragiche esperienze dei totalitarismi, in cui proprio lo stato disponeva sulla vita dei sudditi, a ritornare a quel cardine della Civiltà giuridica che è la sacralità della vita umana tutelata dalla legge. E quindi, partendo da pietose campagne mediatiche, volte a “sensibilizzare” mediante casi limite un’opinione pubblica refrattaria, si è passati alla fase successiva, ossia al pionierismo giurisprudenziale, che, nutrendosi dalla sempre più evidente degenerazione del nostro sistema giuridico in un sistema di Common Law (cioè che si fonda non sulle leggi, ma sulle pronunce dei giudici), è intervenuto il dibattito accademico, ove si impongono miti ermeneutici sempre più consolidati, tanto più pervicacemente perseguiti nell’asserzione del tutto arbitraria di una loro presunta necessità, quanto più sorretti dai medesimi principi di eugenetica malthusiana e neodarwinista che ispiravano le legislazioni totalitarie, questa volta sapientemente mascherati dai soliti scivolamenti semantici, i consueti mutamenti lessicali con cui il politically correct contemporaneo incide sulla lingua al fine di mutare i contenuti. Ed il passaggio successivo sarà la ricezione nell’ordinamento positivo, nelle leggi, nei codici, nelle Costituzioni, di questi aberranti principi, dietro ai quali si nasconde la vera ragione che come sempre deve essere ricercata nelle norme giuridiche e nei principi filosofici che ne sono alla base.

A chi giova una degradazione del principio della sacralità della vita umana?

La risposta, nella sua desolante crudezza, non può non essere articolata se non in riferimento con l’altro mito costitutivo della frenesia della contemporaneità, ossia la ricerca dell’utile, la ricerca dell’efficienza del sistema economico, che deve concentrare tutte le risorse disponibili alla soddisfazione del credito, degli interessi sullo stesso, distogliendoli da una sanità e da un Welfare che altrimenti dovrebbe occuparsi di persone malate, di bambini non voluti dalle madri, di anziani non autosufficienti, di depressi, di non funzionali al sistema economico stesso.

Il sistema dell’usurocrazia mondiale, col pretesto della tutela dei surrettizi “nuovi diritti” si scaglia oggi contro la vita umana. Tutte le risorse economiche debbono servire esclusivamente a soddisfare esigenze finanziarie, non contando più nulla i diritti dei singoli, messi in contrasto appunto con diritti di nuova formulazione ma di alcun fondamento razionale e naturale.
Messa a nudo la radice gnostica da cui spuntano con ciclicità sistematica nuovi polloni di nuovi totalitarismi, oggi siamo chiamati ad affrontare il peggiore di essi. Quello che fa leva sull’empatia, sulla falsa pietà, sul moralismo senza morale, quello dei diritti svincolati dalla natura, quello delle capotiche concettualizzazioni, dell’accademismo autoreferenziale, delle elites finanziarie e tecnocratiche dietro cui si nasconde, come sempre, l’eterna idra che sin dai tempi della classicità l’uomo ispirato ad una concezione spirituale della vita è obbligato a sconfiggere per salvare se stesso ed il mondo intero.

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